Filippo Bonavitacola

Nato a Montella (Avellino) nel 1914, fucilato a Branova (Slovacchia) l’8 dicembre 1944, carabiniere, Medaglia d’oro al valor militare alla memoria.

Al momento dell’armistizio tra l’Italia e gli Alleati, Bonavitacola si trovava in Albania, a Berati. Si unì subito, così come fecero molti carabinieri della Legione di Valona, ai partigiani albanesi e con questi combatté, sino a che non fu catturato dai tedeschi ad Elbasan. Destinato ad un campo di concentramento in Germania, riuscì ad evadere e si unì ai partigiani cecoslovacchi. Nuovamente tratto prigioniero, il valoroso carabiniere, per non aver voluto calpestare gli alamari strappatigli dai nazisti, fu condannato a morte dai tedeschi.
La motivazione della Medaglia d’oro al valor militare decretata alla sua memoria ricorda: “Sorpreso dall' armistizio dell' 8 settembre 1943 in territorio albanese, si univa ai partigiani nella lotta contro i tedeschi. Catturato e condotto in campo di concentramento tedesco, ne evadeva unendosi ai partigiani russi e slovacchi per continuare la impari lotta. Nuovamente catturato, conscio della propria fine, mantenne durante il processo e la lettura della condanna a morte fierissimo contegno, rincuorando i compagni di prigionia, inneggiando al Re e all'Italia. Al momento dell'esecuzione assestava un forte pugno al capitano tedesco che gli si era avvicinato per bendarlo e, scoprendosi il petto, gridava: «Sparate pure, non temo la morte!». Fulgido esempio di alte virtù militari e di fierezza nazionale”.
I resti di Filippo Bonavitacola poterono essere riportati in Italia soltanto nel dicembre del 1994 e sono stati tumulati nel cimitero di Cassano Irpino, vicino al suo paese natale. Qui gli è stata intitolata una via e la caserma che, a Montella, appunto, ospita la Compagnia carabinieri. Ricordano Bonavitacola anche strade di Roma e di Napoli e una piazza di Cassano.

Leonarda Cianciulli

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FUMETTO DELLA SERIE "              Libro di Salvio Sanvitali e V.M.Mastronardi

 I SANGUINARI " 1973

INTERVISTA A LEONARDA CIANCIULLI NEL MANICOMIO CRIMINALE DI AVERSA

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Nome Completo: Leonarda Cianciulli

Soprannome: La saponificatrice di Correggio

Nata il: 1893

Morta il: 15 Ottobre 1970

Vittime Accertate: 3

Modus operandi: omicidio per mezzo di scure; bollitura dei cadaveri per ricavarne sapone; utilizzo del sangue delle vittime nella preparazione di biscotti.

 

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Infanzia e Famiglia.
Leonarda Cianciulli nacque a Montella, in provincia di Avellino nel 1892, da Emilia di Nolfi e Mariano Cianciulli. La sua fu un’infanzia difficile, da lei così descritta: “Ero una bambina debole e malaticcia, soffrivo di epilessia, ma i miei mi trattavano come un peso, non avevano per me le attenzioni che portavano agli altri figli. La mamma mi odiava perché non aveva desiderato la mia nascita. Ero una bambina infelice e desideravo morire. Cercai due volte di impiccarmi; una volta arrivarono in tempo a salvarmi e l’altra si spezzò la fune. La mamma mi fece capire che le dispiaceva rivedermi viva. Una volta ingoiai due stecche del suo busto, sempre con l’intenzione di morire, e mangiai due cocci di vetro: non accadde nulla”.
Nel 1914 sposò Raffaele Pansardi, un impiegato dell’ufficio del registro e andò a vivere nell’Alta Irpinia, ad Ariano.
Nel 1930, in seguito al tragico terremoto dell’Irpinia, la loro casa venne distrutta e decisero di trasferirsi a Correggio, in provincia di Reggio Emilia. Qui, grazie ai soldi del risarcimento statale concesso ai terremotati e al commercio degli abiti usati portato avanti da Leonarda, le condizioni dei coniugi Pansardi si risollevarono.
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La Cianciulli ebbe 17 gravidanze, ma le sopravvissero solamente 4 figli. Probabilmente disperata da tante perdite, questi 4 bambini divennero per lei un’ossessione.
Nel 1939, Giuseppe, il figlio maggiore da lei prediletto, che studiava lettere all’Università di Milano e lavorava come istitutore al Collegio Nazionale di Correggio, fu chiamato a prestare il servizio militare e la minaccia dell’entrata dell’Italia in guerra era sempre più incombente. Bernardo e Biagio, invece, frequentavano il ginnasio, e Norma, l’ultima figlia, andava all’asilo. Nella Cianciulli cominciarono a farsi strada pensieri sempre più tormentati, tanto che decise che per salvare la vita dei suoi figli avrebbe dovuto fare dei sacrifici umani. Sembra che anni prima si fosse fatta leggere la mano da una zingara e che questa le avesse detto: “Ti mariterai, avrai figliolanza, ma tutti i figli tuoi moriranno”. Quindi si era rivolta a un’altra zingara ancora, che le aveva detto: “Vedo nella tua mano destra il carcere e nella sinistra il manicomio”. Di quei momenti così tragici ricordava alcuni pensieri: “Non posso sopportare la perdita di un altro figlio. Quasi ogni notte sogno le piccole bare bianche di quegli altri, inghiottiti uno dopo l’altra dalla terra nera… per questo ho studiato magia, ho letto libri che parlano di chiromanzia, astronomia, scongiuri, fatture e spiritismo: volevo apprendere tutto sui sortilegi per riuscire a neutralizzarli”.
Leonarda frequentava tre amiche, donne sole e non più giovani che avrebbero volentieri fatto qualsiasi cosa per cambiare le loro vite.

Primo omicidio.
La prima vittima si chiamava Faustina Setti. La Cianciulli le disse di averle trovato un marito a Pola, le consigliò di vendere tutto, ma si raccomandò con l’amica di non parlarne con nessuno perché avrebbe potuto scatenare delle invidie. Il giorno della partenza, Faustina si recò a casa sua per salutarla. Dato che Faustina era semi analfabeta, Leonarda le offrì il suo aiuto, invitandola a scrivere alcune lettere e cartoline per amici e parenti che avrebbe poi spedito da Pola, nelle quali diceva di stare bene e che tutto procedeva per il meglio. L’amica però non giunse mai a destinazione. Quel giorno stesso, la Cianciulli la finì a colpi di scure e la trascinò in uno stanzino. Qui sezionò il cadavere e fece colare il sangue in un catino. A tal proposito, nel suo memoriale, scrisse: “Gettai i pezzi nella pentola, aggiunsi sette chilogrammi di soda caustica, che avevo comperato per fare il sapone, e rimescolai il tutto finché il corpo sezionato si sciolse in una poltiglia scura e vischiosa con la quale riempii alcuni secchi che vuotai in un vicino pozzo nero. Quanto al sangue del catino, aspettai che si coagulasse, lo feci seccare al forno, lo macinai e lo mescolai con farina, zucchero, cioccolato, latte e uova, oltre a un poco di margarina, e mescolai il tutto. Feci una grande quantità di pasticcini croccanti e li servii alle signore che venivano in visita, ma ne mangiammo anche Giuseppe e io”.
Qualche giorno, dopo il suo primo omicidio, mandò il figlio Giuseppe fino a Pola affinché imbucasse le lettere della vittima per farle giungere ai destinatari con il timbro postale giusto e vendette i suoi indumenti.
Gli altri omicidi.
La seconda vittima si chiamava Francesca Soavi, sognava anche lei di andar via da Correggio, ma non sperava nel matrimonio e si sarebbe accontentata di trovare impiego in un altro luogo. Leonarda le disse di averle trovato un lavoro nel collegio femminile di Piacenza. Francesca accettò con gratitudine e la mattina del 5 settembre 1940 raggiunse l’amica per salutarla. La Cianciulli convinse la donna, senza fatica, a scrivere due cartoline che avrebbe dovuto spedire da Correggio per annunciare ai conoscenti la partenza evitando di far capire ai ficcanaso la destinazione. Posata la penna, Leonarda, come da copione, si avventò sulla donna e l’uccise. Da questo omicidio però guadagnò solo le 3000 lire che la vittima aveva con sé. Per ricavare maggiori guadagni, i giorni successivi Leonarda disse che era stata incaricata da Francesca a vendere tutti i suoi beni e i mobili. Giuseppe, su incarico della madre partì per Piacenza e spedì le cartoline.
La terza e ultima vittima fu un’ex-cantante lirica, cinquantatreenne, costretta a vivere in miseria. Si chiamava Virginia Cacioppo.
Con lo stesso metodo, Leonarda le propose un incarico a Firenze, come segretaria di un misterioso dirigente teatrale che, magari, avrebbe potuto reintrodurla nell’ambiente. Pregò anche questa di non farne parola con nessuno, dicendole che l’uomo era stato suo amante e che se si fosse sparsa la voce che lei lo vedeva ancora la sua famiglia l’avrebbe disprezzata. Virginia, entusiasta della proposta, mantenne la promessa e il 30 settembre 1940 si recò da Leonarda. Di lei la Cianciulli disse: “Finì nel pentolone, come le altre due… la sua carne era grassa e bianca, quando fu disciolta aggiunsi un flacone di colonia e, dopo una lunga bollitura, ne vennero fuori delle saponette cremose accettabili. Le diedi in omaggio a vicine e conoscenti. Anche i dolci furono migliori: quella donna era veramente dolce”.

leonardacianciulliLa cattura.
Fu la cognata dell’ultima vittima a insospettirsi dell’improvvisa sparizione di Virginia, che aveva visto entrare nella casa della Cianciulli prima di far perdere le sue tracce per sempre. La casa della stessa donna che poi aveva messo in vendita i vestiti della Cacioppo. Decise quindi di confidare al questore di Reggio Emilia i suoi sospetti, il quale seguì le tracce di un Buono del Tesoro di Virginia, presentato al Banco di San Prospero dal parroco di san Giorgio, a Correggio. Convocato dal questore, il prete disse di aver ricevuto il buono da Abelardo Spinarelli, amico della Cianciulli. Lo stesso Spinarelli dichiarò di averlo ricevuto dalla Cianciulli per il saldo di un debito. Le tracce condussero quindi le indagini fino a Leonarda che confessò senza fare molta resistenza i suoi tre omicidi. Gli inquirenti però non riuscivano a credere che una donna anziana, bassa e grossa avesse potuto fare tutto questo da sola e andarono alla ricerca di un complice che l’avesse aiutata a compiere i delitti. Il sospettato numero uno era il figlio Giuseppe che al processo (1946) dichiarò di aver spedito le lettere, senza però sapere la verità. La madre, intenzionata a difenderlo con tutte le sue forze, propose una dimostrazione atta a far capire che lei era l’unica artefice di quella mattanza. Davanti a magistrati e avvocati, in soli dodici minuti, sezionò il cadavere di un vagabondo morto in ospedale e procedette con le tecniche di saponificazione.

La condanna.
Cianciulli-TribunaleLeonarda Cianciulli fu riconosciuta come unica autrice dei tre omicidi, venne condannata a 30 anni di reclusione e a tre anni di manicomio giudiziario. In carcere scrisse, lavorò a uncinetto e cucinò biscotti che nessuno aveva voglia di assaggiare. Riceveva le visite dei figli. Il 15 ottobre del 1970, morì nel manicomio giudiziario femminile di Pozzuoli, stroncata da apoplessia cerebrale.

Saponificatrice di Correggio – il killer sfornava dolci (con le vittime)Chantal Cresta


Leonarda Cianciulli

Reggio Emilia – Leonarda Cianciulli naque a Montella (Avellino) nel 1893 da famiglia modesta e poco incline all’affetto nei confronti della bambina. Fin da giovanissima ella presentò delle difficoltà caratteriali: molto introversa e depressa, tentò 2 volte il suicidio. Sopravvissuta e cresciuta, la ragazza sembrò trovare un equilibrio. Sempre in rotta con la famiglia, nel 1914, a 21 anni, si sposò contro il volere della madre che il giorno delle nozze la maledisse, un episodio che segnò profondamente la psiche della futura omicida.

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?>
{/source}Leonarda e il marito, Raffaele Pansardi, impiegato al catasto si trasferirono a Lauria (Potenza) dove la donna ebbe 17 gravidanze e 14 figli di cui 10 perirono in tenera età. La Cianciulli – come lei stessa ricorderà in seguito – era ossessionata dall’idea di perdere i bimbi rimasti tanto quanto era convinta che la causa della morte di tutti gli altri fosse dovuto al maleficio della madre.

Nel 1930, la famiglia Pansardi perse tutto nel terremoto di Vulture e fu costretta a trasferirsi a Correggio (Emilia Romagna). Il marito – mai ripresosi dallo shock della catastrofe – diventò presto un alcolizzato violento al punto da costringere la moglie a cacciarlo di casa. Rimasta sola, la donna fece quello che potè: racimolò denaro come lavandaia, lavoratrice di sapone e cuoca. Si appassionò allo spiritismo e all’occulto improvvisandosi, poi, fattucchiera e maga. Tutte queste attività consentirono a Leonarda di risollevarsi economicamente ed aprire un piccolo negozio di abiti usati nonché di assicurarsi la stima e l’amicizia dei concittadini. E fu tra queste conoscenze che Leonarda individuò le sue vittime.

Gli omicidi – Faustina Setti, Francesca Soavi e Virginia Cacioppo erano 3 donne legate non solo dalla comune amicizia con la Cianciulli ma anche da alcune peculiarità: erano benestanti e tutte molto insoddisfatte della loro a vita Correggio.  Ognuna di loro era pronta a lasciare la cittadina per realizzarsi altrove e aspettava solo l’occasione o il pretesto per partire. Leonarda glielo fornì.

La prima a sparire fu Faustina, 70 anni, scarsa istruzione. Leonarda la convinse di averle trovato marito a Pola (Croazia) e le suggerì di non far menzione a nessuno della notizia fino alla celebrazione delle nozze. Intorno al 1940, Faustina si recò a casa dell’amica Cianciulli per le ultime indicazioni prima della partenza, nonché per delegare a quest’ultima l’amministrazione dei suoi beni finchè  – così pensava l’anziana – non si fosse stabilita definitivamente. Leonarda uccide la donna con un colpo di accetta e con i suoi resti fabbricò sapone e dolci. La descrizione della “lavorazione” del corpo la si può recupare dal memoriale che la stessa l’omicida redasse in carcere, Le confessioni di un’anima amareggiata (la cui autoralità, tuttavia, è dubbia):

“Dopo aver fatto a pezzi il cadavere mettevo la caldaia a bollire sul fuoco […]. Il calderone conteneva 5 kg di soda caustica in ebollizione. I pezzi non adatti alla saponificazione li versavo un po’ nel gabinetto e un po’ nel canale vicino a casa mia. […] Il sangue (raccolto in un catino) di solito lo riunivo a marmellata e cioccolato, aromi di anice e vaniglia […]. Qualche volta in queste torte, che offrivo alle mie visitatrici, ci mettevo un pizzico della polvere ricavata dalle ossa delle morte”.

Francesca Soavi, insegnante d’asilo, e Virginia Cacioppo, ex soprano, finirono nel pentolone della Cianciulli nello stesso anno.

L’arresto – Malgrado le precauzioni dell’assassina, i parenti delle donne si proccuparono subito della scomparsa delle congiunte. La polizia si mise in moto e presto scoprì il transito di forti somme sul conto bancario di Leonarda. Da qui alla perquisizione della casa della donna il passo fu breve e ciò che gli inquirenti trovarono – il calderone, la polvere d’ossa, il sangue essiccato, il seghetto, il martello, le scuri e la mannaia – sono ancora oggi materia di analisi psicopatologica della criminologia occidentale.

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La Cianciulli a processo

Leonarda Cianciulli, durante il processo, fece una dettagliata confessione affermando che la ragione dei suoi crimini era una visione. Anni prima le era apparsa in sogno la Madonna la quale l’aveva esortata a commettere sacrifici di sangue per salvare la vita dei propri figli. Quattro vite per quattro vite. I magistrati non credettero mai all’ipotesi della nevrosi psicotica. Malgrado ritenessero la donna pazza, la sua era una follia lucida e nutrita da fredda avidità. A ciò si aggiungeva la componente sadica: disporre dei cadaveri accanendosi su di essi per farne torte e sapone da regalare ad amici ed conoscenti. Così, mentre i giornali già la ribattezzavano, la Saponificatrice di Correggio, Leonarda Cianciulli venne condannata a 30 anni di carcere e 3 di manicominio criminale per aver ucciso, smembrato e disciolto nell’acido le sue vittime. Nel 1970 morì nel manicomio di Pozzuoli all’età di 77 anni. Una delle addette della strutture ricordava che spesso Leonarda si lamentava delle altre detenute: nessuna di loro voleva mangiare i suoi dolci.

FOTO || http://it.wikipedia.org/wiki/File:Leonarda_Cianciulli.jpg

FOTO || http://www.lombardiabeniculturali.it/fotografie/schede/IMM-3g010-0020706/

leonarda cianciulli.630x360Il caso Cianciulli
Negli Anni '40 divenne nota come "saponificatrice di Correggio". Un team di criminologi ne ha ricostruito oggi i delitti: movente, dinamica e profilo psichiatrico.
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Leonarda Cianciulli

“Tagliai qui, qui e qui: in meno di 20 minuti tutto era finito, compresa la pulizia. Potrei anche dimostrarlo ora”. Così nel 1946 la “saponificatrice di Correggio”, al secolo Leonarda Cianciulli, dichiarò in tribunale di essere disposta a far vedere come si fa a pezzi un cadavere in poche mosse. I tre delitti di cui era accusata li aveva confessati senza battere ciglio e con la stessa freddezza aveva dichiarato di aver sezionato le sue vittime e di averne fatto sapone e dolcetti.
Quella dimostrazione non fu mai autorizzata, anche se la leggenda vuole che all’imputata fosse stato fornito dal giudice il corpo senza vita di un vagabondo da smembrare. E che lei l’avrebbe fatto senza scomporsi. «In realtà è solo un mito nato attorno alla figura della Cianciulli, di cui non si trova conferma nella documentazione ufficiale» spiega Augusto Balloni, neuropsichiatra e docente di Criminologia all’Università di Bologna, che ha coordinato la più recente e approfondita ricerca sulla prima serial killer italiana del Novecento, presentata in un libro di prossima pubblicazione intitolato Soda caustica, allume di rocca e pece greca (Minerva) dagli ingredienti con cui la donna bolliva le sue vittime per ottenerne saponette.

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Il team di esperti è tornato sulla scena del crimine a 70 anni da quei delitti, per sfatare i falsi miti nati attorno a questa vicenda e riaprire un caso che continua a fare scalpore. «Per scavare nella mente della Cianciulli siamo partiti dal suo lungo memoriale, 800 pagine scritte di suo pugno durante la permanenza all’ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa (Ce). Ma abbiamo analizzato anche la sentenza di condanna, la trascrizione degli interrogatori e le tante lettere della donna. Questo materiale ci ha consentito di tracciare un profilo criminologico completo» spiega Balloni.
Prima di tutto, però, i fatti. Leonarda Cianciulli era originaria di Montella (Av), in Irpinia. Ma nel 1930, a 37 anni, era stata costretta a salire al Nord, marito e quattro figli al seguito, dopo che un disastroso terremoto aveva raso al suolo la loro casa. Avevano messo radici a Correggio, un paesotto in provincia di Reggio Emilia dove Leonarda si era subito rimboccata le maniche. Si era così rifatta una vita, conquistandosi da sola (il marito a un certo punto aveva alzato i tacchi per sempre) una certa fama e una discreta posizione sociale grazie al commercio casalingo di abiti usati e all’attività di maga che leggeva il futuro e toglieva il malocchio.
«La Cianciulli era una leader nata» spiega Roberta Bisi, docente di Sociologia giuridica, della devianza e del mutamento sociale all’Università di Bologna, che ha tracciato un profilo psicanalitico della criminale. «E una donna accattivante, che col suo fascino puntava a esercitare un controllo assoluto su chi la circondava, ridotto a mero “oggetto” da sfruttare. Le uniche soddisfazione le derivavano dalle sue manie di grandezza e dalla deferenza che le riservavano gli altri».
Dietro quella facciata di donna a modo, tra il 1939 e il 1940 Leonarda maturò il suo spietato piano criminale. Una dopo l’altra, attirò in casa sua tre donne, sole e anziane, lusingandole con la promessa di una nuova vita lontano da lì, si fece firmare una procura con cui poteva vendere tutti i loro beni (e intascare i soldi ricavati) e le fece fuori a colpi di accetta per poi saponificarne i corpi. Nessuno avrebbe cercato quelle povere donne: la Cianciulli le aveva convinte a scrivere cartoline rassicuranti ai parenti, in cui annunciavano una partenza senza ritorno. Ma quale fu il movente? Il denaro? Pura follia omicida? Per capirlo conviene cominciare dalla fine, ovvero dal processo.

 

Il paese della Cianciulli
La Cianciulli salì sul banco degli imputati solo nel 1946. Era già stata arrestata qualche mese dopo l’ultimo delitto, avvenuto nel novembre del 1940, quando una parente dell’ultima vittima, nient’affatto convinta dalla cartolina d’addio, aveva insistito perché fosse fatta luce su quella sparizione. Ma il processo era stato ritardato a causa dello scoppio della Seconda guerra mondiale.
Dopo l’arresto Leonarda fu sottoposta a perizia psichiatrica da un importante medico dell’epoca, Filippo Saporito, docente all’Università di Roma e direttore del manicomio criminale di Aversa. «Saporito giudicò la donna affetta da psicosi isterica e totalmente inferma di mente. La sezione istruttoria della Corte di appello di Bologna accusò invece lo psichiatra di essersi fatto “stregare” e ritenne la criminale pienamente imputabile» precisa Balloni «Alla fine la donna fu dichiarata “solo” seminferma di mente e colpevole di triplice omicidio. Fu condannata a 30 anni di reclusione preceduti da tre anni di ricovero in una casa di cura: si trattò di una sentenza innovativa, anche rispetto a oggi. Prima della galera la Cianciulli fu infatti affidata alle cure mediche: di fatto entrò in manicomio e non ne uscì più. Vi morì nel 1970, alla soglia dei 78 anni».

Un momento del processo alla Cianciulli
Che cosa c’era, dunque, nella mente di Leonarda? «Il suo delirio criminale scattò poco prima della guerra, quando i suoi due figli maschi più grandi, tra cui il prediletto Giuseppe, furono dichiarati idonei alla leva. Il terrore di vederseli strappar via, per rischiare la vita sul fronte, causò il black-out mentale» risponde Balloni.
La Cianciulli aveva un rapporto ossessivo coi 4 figli, gli unici sopravvissuti dei 14 che aveva dato alla luce, dopo aver iniziato ben 17 gravidanze. «A quel punto scattò in lei l’idea del salvataggio dei figli in cambio del sacrificio umano di altre anime innocenti» spiega Raffaella Sette, sociologa criminale all’Università di Bologna e grafologa, che ha esaminato il carteggio tra la Cianciulli e il figlio maggiore Giuseppe, anche lui coinvolto nella vicenda per concorso in omicidio con la madre ma scagionato per insufficienza di prove. «La Cianciulli era stata fin da piccola estremamente suggestionabile: era cresciuta circondata da maghe e chiromanti che, a suo dire, le avevano predetto un futuro pieno di sciagure». Una maledizione su tutte l’avrebbe segnata: quella di una zingara (o forse della stessa madre, da cui si era sempre sentita rifiutata) secondo cui avrebbe avuto sì dei figli, ma li avrebbe visti morire tutti.

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Giuseppe, il figlio della Cianciulli
A suggerirle una via di uscita sarebbe stata, a suo dire, una Madonna nera che le era apparsa in sogno chiedendole vite umane di “innocenti” in cambio di quelle dei suoi figli. «La superstizione di cui era intrisa la sua mentalità aveva deformato la sua visione della realtà tanto da renderla una donna amorale, incapace di distinguere il bene dal male» continua Sette. Uccidere, nell’ordine, Faustina Setti (73 anni), Francesca Soavi (55) e Virginia Cacioppo (59) non le sembrò poi così aberrante, se sull’altro piatto della bilancia c’era il sangue del suo sangue.
«Il suo memoriale rivela anche che Leonarda aveva una doppia personalità» aggiunge Roberta Bisi. «Parlava di sé alternativamente come di Nardina (la chiamava così la madre) o di Norina (soprannome datole dal padre). La prima era la madre che soffriva, la seconda la donna che agiva». Nardina-Norina non temette di sporcarsi le mani per difendere i suoi figli, e non se ne fece mai un cruccio: “Non ho ucciso per odio o per avidità, ma solo per amore di madre” disse nelle sue memorie, che intitolò Confessioni di un’anima amareggiata.

ciancillu da giovane.570La Cianciulli da giovane
Davvero Leonarda Cianciulli trasformò le sue vittime in saponette? Alcuni periti al processo del 1946 dubitarono che fosse riuscita da sola a squartare corpi pesanti almeno 70 kg e che fosse riuscita a saponificarli con la soda caustica. «La descrizione circostanziata che si legge nel memoriale lascia in realtà pochissimo spazio ai dubbi» spiega Augusto Balloni. «Le perizie scientifiche, poi, accertarono la presenza, nel pozzo nero che la criminale aveva in casa, di frammenti ossei umani modificati da un processo chimico compatibile con quello della saponificazione» aggiunge Cecilia Monti, che nel team di Balloni ha analizzato gli aspetti scientifico-forensi del caso.
«Le perplessità riguardano piuttosto il fatto che la saponificazione fosse avvenuta all’insaputa di tutti e che poi quelle saponette fossero state usate davvero, come si dice spesso» spiega Monti.
A quel tempo in campagna il sapone si otteneva facendo bollire nella soda caustica gli scarti del maiale (ossa e cartilagini): un procedimento che si svolgeva all’aperto a causa del fetore che produceva. «Possibile che il figlio Giuseppe, come dichiarò, avesse confuso l’odore nauseabondo del pentolone materno con quello della fogna? Quanto alle saponette, forse se ne sbarazzò un po’ per volta, senza doverle usare».

Per saperne di più: Soda caustica, allume di rocca e pece greca. Il caso Cianciulli (Minerva edizioni) A cura di: Augusto Balloni, Roberta Bisi, Cecilia Monti.

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Museo del Crimine di Roma

 

 

Aurelio Fierro

Aurelio FierroAurelio Fierro

(Montella, 13 settembre 1923 – Napoli, 11 marzo 2005) è stato un cantante e attore italiano.

Insieme a Roberto Murolo, Renato Carosone e Sergio Bruni è stato uno dei maggiori interpreti della canzone napoletana.

Era molto legato alla famiglia, specialmente alla cugina Anna. Il suo celebre motivo Guaglione è stato tradotto in diverse lingue, anche grazie alle numerose tournée che il cantante compì in USA e Canada a beneficio delle numerose colonie di immigrati italiani ancora presenti alla fine degli anni Cinquanta nel continente nordamericano.

Fierro ha partecipato a numerosi Festival della canzone italiana di Sanremo,sei volte e a diverse edizioni del Festival della canzone napoletana (del quale vinse la prima edizione organizzata dalla RAI appunto con Guaglione).

Il suo debutto risale al 1951, quando vinse il concorso delle "Voci Nuove", classificandosi primo su seicento concorrenti; questo gli consentì di firmare un contratto con la casa discografica Durium, con cui avrebbe poi inciso una serie di canzoni in dialetto napoletano ma anche in lingua italiana.

Nel 1952 vinse con il brano "Rose, poveri rrose!" il primo Festival di Castellammare. Questo lo spinse a lasciare la professione di ingegnere per potersi dedicare unicamente alla musica.

Il suo primo grande successo fu "Scapricciatiello".

Uno dei suoi più grandi successi, famosissimo anche all'estero, e presentato per la prima volta ad un Festival di Napoli, in coppia con un altro grande, Giorgio Gaber, è: A' pizza.

È stato anche discografico, fondando e dirigendo la casa discografica King.

Nel mondo del cinema la sua principale attività è stata quella di interprete e tra i lavori più interessanti possiamo citare la partecipazione nel film Aitanic (2000) di Nino D'Angelo dove ha interpretato la parte di Don Capillo. Nel 1996 ha inoltre lavorato con Maurizio Nichetti per la realizzazione del film Luna e l'altra dove ha interpretato la parte del padre di luna. Oltre al ruolo di interprete Aurelio Fierro ha lavorato come musicista nel film commedia di Carlo Ludovico Bragaglia Caporale di giornata (1958). E ancora musicista nel film di Marino Girolami Quel tesoro di papà (1959), musicista nel film di Pino Mercanti Ricordati di Napoli (1958), musicista nel film di Giorgio Simonelli Napoli Sole Mio (1958).

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Mister simpatia, o Mr. Guaglione, come lo chiamavano in America, Aurelio Fierro nonché  storica voce della canzone napoletana e grande divulgatore  della tradizione musicale partenopea nel mondo, ci ha lasciati all'età di 81 anni spegnendosi in una triste giornata del 13 Marzo 2005 a Napoli (Italia).

Aurelio non c'è più: noi vogliamo ricordarlo e dirgli grazie per la promozione fatta alla ns. pizza, nel 1966  insieme a Giorgio Gaber, con il  motivo " 'A pizza", classificatasi seconda al festival di  San Remo.

 

Sanremo 1958 - 8a edizione

Claudio Villa & Duo Fasano, insieme con Nilla Pizzi & Aurelio Fierro, partecipa al festival con il brano ''La canzone che piace a te'' (Cutolo-De Paolis-Ruccione)

 

Sanremo 1958 - 8a edizione

Aurelio Fierro & Trio Joice, insieme con Duo Fasano, partecipa al festival con il brano ''I trulli di Alberobello'' (Bindi-Ciocca)

 

Sanremo 1958 - 8a edizione

Aurelio Fierro & Trio Joice, insieme con Claudio Villa & Duo Fasano, si classifica al 7° posto con il brano ''Fragole e cappellini'' (Seracini-Panzeri)

 

Sanremo 1958 - 8a edizione

Aurelio Fierro & Gloria Christian, insieme con Carla Boni & Gino Latilla, si classifica al 6° posto con il brano ''Timida serenata'' (Redi-Nisa)

 

Sanremo 1959 - 9a edizione

Aurelio Fierro, insieme con Natalino Otto, si classifica al 7° posto con il brano ''Avevamo la stessa età'' (Calcagno-Marini)

 

Sanremo 1959 - 9a edizione

Aurelio Fierro, insieme con Teddy Reno, si classifica al 5° posto con il brano ''Lì per lì'' (Beretta-Viezzoli)

 

Sanremo 1961 - 11a edizione

Aurelio Fierro, insieme con Carla Boni, partecipa al festival con il brano ''Tu con me'' (Ballotta-Amurri)

 

Sanremo 1962 - 12a edizione

Aurelio Fierro, insieme con Joe Sentieri, si classifica al 8° posto con il brano ''Cipria di sole'' (Marotta-Mazzocco)

 

Sanremo 1962 - 12a edizione

Aurelio Fierro, insieme con Gino Bramieri, si classifica al 6° posto con il brano ''Lui andava a cavallo'' (Ravasini-Nisa)

 

Sanremo 1963 - 13a edizione

Aurelio Fierro, insieme con Sergio Bruni, partecipa al festival con il brano ''Un cappotto rivoltato'' (Leuzzi-Specchia)

 

Sanremo 1963 - 13a edizione

Aurelio Fierro, insieme con Claudio Villa, si classifica al 7° posto con il brano ''Occhi neri e cielo blu'' (Panzeri-Pace)

 

Sanremo 1964 - 14a edizione

Aurelio Fierro, insieme con Marina Moran, partecipa al festival con il brano ''Sole pizza e amore'' (Giacobetti-Savona)

 


 

Articolo di Repubblica del 21 marzo 2005

Il cantante aveva 81 anni, da tempo soffriva di un male incurabile

Celebre per le sue canzoni e per le ricerche sulla musica della sua terra

E' morto Aurelio Fierro alfiere della canzone napoletana

NAPOLI - E' morto oggi a Napoli, a 81 anni, il cantante Aurelio Fierro. Era ricoverato dal 18 gennaio scorso nell'ospedale Cardarelli: da tempo soffriva di un male incurabile, e di recente era stato colpito da un ictus. Dopo dieci anni di malattia, lascia due figli entrambi musicisti, Fabrizio il maggiore, Flavio, e poi il nipote, erede del suo nome, Aurelio Junior, batterista di talento. 

Fu alfiere della canzone della sua terra: a Napoli, dove da consigliere comunale, negli anni Settanta, si adoperò per promuoverla e difenderla, e all'estero, soprattutto in Giappone, dove era popolarissimo. Ma il suo lavoro lo portò anche in Canada, e negli Stati Uniti, dove divenne celebre fra le comunità italoamericane, e poi in Europa e Australia. 

Nato a Montella, in provincia di Avellino, il 13 settembre del 1923, un primo contratto nel 1951 con la "Durium" di Milano, per incidere canzoni napoletane e non, Fierro compie la sua scelta decisiva nel 1954, quando decide di fare il cantante, piuttosto che l'ingegnere, professione alla quale gli studi lo avrebbero destinato. Cinque bis per O' scapricciatiello, richiesti da un pubblico in deliro alla festa di Porta Capuana decretano per lui un consenso popolare straordinario, oltre che un autentico record. 

Inizia così un percorso ricco di esperienze diverse. Le tourné in Canada e negli Stati Uniti (dove diventa "Mister Scapricciatiello" e "Mister Guaglione"); in Giappone, dove nella sua biografia si registrano applausi lunghi otto minuti per Core 'ngrato. Fra i suoi successi anche Lazzarella, la canzone intorno alla quale fu costruito anche uno dei suoi film, i cosiddetti "musicarelli": lui era fra i protagonisti, insieme a Domenico Modugno, Tina Pica, Alessandra Panaro. 

Poi ci sono le partecipazioni ai festival: quello della canzone napoletana, con tre vittorie, e Sanremo, nel 1958, nel 1959, nel 1961, poi nel 1962 in duo con Gino Bramieri nell'interpretazione di Lui andava a cavallo. Torna anche nel 1963, insieme a Claudio Villa, con Occhi neri e cielo blu. 

Nella sua Napoli, come consigliere comunale della Democrazia cristiana, sognava un museo della canzone napoletana, con tanto di teatrino per i turisti. Un progetto avviato e naufragato, che avrebbe dovuto realizzarsi nella Casina dei Fiori della Villa comunale. Mise in piedi anche una casa discografica, la "King Universal", e un ristorante, "A' canzuncella", che richiamava i clienti soprattutto il sabato sera, quando interveniva lui, con un "dinner show". 

Attirato dall'idea di approfondire le origini della cultura napoletana, quelle linguistiche de Lo cunto de li cunti, fu autore di una Grammatica della lingua napoletana, con prefazione di Antonio Ghirelli, e di un libro commissionatogli dalla Rusconi di Milano, Fiabe e leggende napoletane. Non arriverà mai alle stampe invece la Enciclopedia storica della canzone, un progetto in quattro volumi che lo impegnò dai primi anni Novanta. La sua ultima esibizione, un anno e mezzo fa, per festeggiare i suoi ottant'anni. A Santa Maria La Nova, naturalmente nella sua Napoli. 

(11 marzo 2005)

Guido Gambone

Gambone 01Primo di cinque figli nasce a Montella, in provincia di Avellino, il 27 giugno 1909, da una famiglia del ceto medio.Giovanissimo, si trasferisce con i genitori a Salerno, ove compie gli studi frequentando il ginnasio: più tardi, a partire dalla seconda metà degli anni Venti, lo troviamo al banco di zi' Domenico a Vietri sul Mare dedito alla pittura nei laboratori di ceramica. Qualche anno dopo è alle dipendenze della fabbrica Avallone. La sua vocazione iniziale è la pittura, con un esercizio attento alla cultura artistica italiana, con chiari riferimenti agli artisti che espongono nelle Triennali, dapprima a Monza, fino al 1930, anno in cui un suo lavoro è presentato dalla ditta Avallone, poi a Milano nel 1933. Dalla bottega dell'Avallone passa alle dipendenze di Max Melamerson nell'Industria Ceramica Salernitana, dopo che Riccardo Doelker aveva lasciato Vietri: nel 1935 partecipa alla selezione provinciale dei Prelittoriali della Cultura organizzati a Salerno e poi alla mostra regionale tenutasi a Napoli nel 1936, ove espone Il Duce ha chiamato, una tela del 1935. Nel 1937, si reca, con Vincenzo e Salvatore Procida e Francesco Solimene, a Firenze presso la ditta Cantagalli che in quegli anni stringe rapporti di lavoro con Melamerson. Nel 1940 ritorna a Vietri sul Mare, ove è alle dipendenze della “MACS”; nel 1940 partecipa alla VII Triennale di Milano, mentre nel 1942 è al IV Concorso Nazionale della Ceramica di Faenza.

Del secondo dopoguerra, fra il 1944 e il 1945, è l'apertura della sua celebre bottega “La Faenzarella - Gambone e compagni”, alla quale collaborano Andrea d'Arienzo e Vincenzo Procida. Nel 1947 una sua opera è segnalata al Premio Faenza, mentre nel 1948 vince il primo premio al Concorso Nazionale della Ceramica della stessa città con La Faenzerella, una scultura in maiolica. Sulla stessa traccia si pongono il Cavaliere, una maiolica, ove sono presenti riferimenti al Picasso mediterraneo, che l’artista vietrese ha la possibilità di vedere dal vero nella visita alla Biennale veneziana del 1948.

I dipinti di questo periodo respirano l’aria di quei venti che sobillano le esperienze artistiche italiane all’indomani della guerra: v’è la scoperta del colore di Van Gogh, della luce di Matisse, della costruzione dello spazio cézanniano, tutto ciò, però, sottoposto ad un severo registro formale. Tra i dipinti della fine degli anni Quaranta si ritrovano i numerosi paesaggi della costiera, le donne negli interni o sulle spiagge assolate: nel 1950 tiene una mostra personale alla Galleria Sant’Orsola di Napoli, e con la Figura femminile (nota come Nudo sul dorso), del 1949-50, e con la piastra in maiolica raffigurante il Ratto d'Europa espone alla Biennale di Venezia del 1950, nella sala con Melotti e Minguzzi. Nel 1950 è la presenza alla rassegna “Italy at Work. Her renaissance in design today”, curata dalla C.N.A., tenutasi a Chicago e circolante in altre sedi degli i Stati Uniti. Nello stesso anno si trasferisce definitivamente a Firenze: qui ha modo di frequentare l’ambiente artistico e letterario, dal pittore Rosai all'architetto Michelucci, al poeta Mario Luzi, allo scrittore Lombardo Radice, ai giovani artisti che, in quell’anno, danno vita al gruppo dell’Astrattismo Classico. Al primo periodo fiorentino vanno restituite alcune opere tra questa la scultura Leda e il cigno, esposta, insieme ad altre opere, nella personale del 1951 alla Galleria Il Milione di Milano.

Qui conosce Atanasio Soldati, frequenta Lucio Fontana e alcuni artisti provenienti dalle file del Fronte Nuovo delle Arti, quali Afro, Birolli, Cassinari. Dalla metà del decennio Gambone inizia a sperimentare il grès, un materiale che segnerà profondamente il suo linguaggio, come testimoniano le bottiglie del 1956, Vaso zoomorfo del 1959, Scultura dello stesso anno e Scultura bianca, oggi nella collezione Jach Yager di New York. Più tardi, dal 1956, sperimenta il monotipo, interesse che l’accompagnerà sino agli ultimi anni di vita.

Gambone 02Del 1951 è l'invito alla IX Triennale di Milano e del 1952 la partecipazione alla mostra “Art Decoratif Italien”, tenutasi presso la Galleria Orfèvriere Christofle di Parigi; nel 1954 espone alcune sculture in maiolica nella mostra “Forme nuove in Italia”, organizzata a Zurigo, nonché alla X Triennale milanese, mentre del 1955 è la presenza alla rassegna “Les chefs-d'œuvre de la Céramique Moderne”, tenutasi a Cannes. Nelle opere eseguite in grès nella prima metà degli anni Sessanta, l'artista attua una riduzione dell'impianto compositivo, che mira ad una forma pura, e primaria, come testimoniano i lavori realizzati già dal 1960, quali ad esempio Grande totem; nel 1962 partecipa alla “Zeitgenossiche Keramik aus Italien”, allestita ad Amburgo, e all’Esposizione Internazionale della Ceramica tenutasi a Praga. Nel 1964 espone nella Mostra Internazionale delle Ceramiche a Tokio; nel 1967 è ancora ad Amsterdam, nella rassegna “Nieuwe Italianse Vormgevig”, mostra curata dalla Triennale di Milano, e all'Esposizione Universale di Montreal. Agli ultimi anni di vita appartengono piccole sculture realizzate in porcellana e, tra queste, Cubo stanco: la composizione, rispetto ai lavori della metà del decennio, sembra essersi irrigidita, resa magica ed arcaica dal colore ruggine. Nel 1967 la Triennale di Milano gli dedica una mostra personale, mentre del 1968 è l’invito alla mostra “7 Ceramisti”, tenutasi alla Loggia Rucellai a Firenze, e alla Manifestazione del Prodotto Italiano, organizzata ad Essen. Muore a Firenze il 20 settembre del 1969.

www.guidogambone.com

Padre Silvio Stolfi

Nel Santuario di San Francesco a Folloni è stato ricordato il 10° anniversario della morte di Padre Silvio Stolfi con una S. Messa celebrata da Padre Agnello Stoia.Al termine della cerimonia religiosa l'amico, oggi primo cittadino, Ferruccio Capone è intrvenuto per sottolineare la figura di religioso e persona dotata di particolari capacità di relazionarsi con chiunque, con bonaria amicizia e fraterna attenzione ai bisogni di ciascuno.Come si ricorderà Padre Silvio è stato presente a Montella per ben 50 anni presso il convento di San Francesco e sacerdote nelle campagne di Canale di Montemarano e dintorni, riscuotendo l'affetto, la simpatia e la riconoscenza di quanti lo conobbero. Davvero un personaggio unico, un montellese di adozione, orgoglioso di aver trascorso tanti anni  in ambiente umano e sociale e che tanto apprezzava.Dal 1973 organizzò la festa di San Francesco, curando in modo particolare i fuochi d'artificio che erano la sua passione.Infine si deve ricordare la sua straordinaria capacità di "predicatore", le sue omelie, colte ed appassionate, coinvolgevano straordinariamente l'uditorio soprattutto da un punto di vista emotivo.

(Renato Sica - Montella)