Di Giovanni Tiretta su Giovedì, 22 Novembre 2018
Categoria: Arte e cultura

I giochi di una volta a Montella - Parte 2 (di Nino Tiretta)

(I giochi di strada, femminili e maschili, di gruppo e d’intrattenimento)

Seconda Parte

Come già detto nella “Prima Parte” (già pubblicata ad agosto 2018) , negli anni ’45-’50 dello scorso secolo, sia nei giochi di “gruppo” e sia in quelli di “passatempo”, i maschietti e le femminucce giocavano per proprio conto, non c’era mescolanza e pertanto, già in età infantile, sussisteva una drastica separazione anche perché i giochi, riferiti al sesso, erano diversi. Di fatto sia le bimbe e sia i maschietti avevano giochi esclusivi, giochi da

poter “fare” direttamente, da soli, per “trattenimento”, in piccolissimi o in gruppi molto allargati.

Erano tempi diversi, non c’era traffico e noi ragazzi e ragazze ci riunivamo “sotto casa”, nei cortili o negli “slarghi” del “casale" o, soprattutto nelle strade; si giocava con quel che si trovava.
Bastava l’androne di una casa, un albero, un palo delle “luce”, un cespuglio, una palla, una pietra: nella realtà di allora era sufficiente che ci fossero degli amici, coetanei anche che li si conosceva poco.
La voglia di giocare facilitava la socializzazione, animava lo scambio di culturale e di esperienze, c’era il piacere di far parte del gruppo, di stare in costante movimento, di mettersi alla prova riuscendo, con bonaria competizione, a superare le difficoltà.
Il gioco molto femminile, largamente ed allegramente praticato, anch’esso all’aperto, soprattutto in estate, era, senza dubbio alcuno, quello della “Campana”.

 

Pur con 44 modi diversi di giocarlo, questo è uno dei giochi più antichi e diffusi che si conoscano al mondo.
Non si sa dove esso sia nato; si sa, però, che è praticato, con leggere varianti, in numerosi paesi: dall'Inghilterra alla Tunisia, dall'India alla Cina, dalla Russia al Perù.
Uno dei disegni più antichi della “Campana” è tracciato sulla pavimentazione del Foro Romano a Roma, sulla superfice livellata di una delle grandi strade selciate che le legioni romane, durante il periodo dell'Impero, avevano costruito per collegare i paesi del Nord Europa con quelli mediterranei e dell'Asia Minore.
Si dice che le superfici lisce di quelle vie rappresentassero il posto ideale per questo gioco e si dice anche che furono i soldati romani a far conoscere il gioco della “Campana” ai bambini dei paesi conquistati.
E’ un gioco di movimento che richiede agilità ed equilibrio e che, nelle varie regioni italiane, è conosciuto con nomi diversi come ad esempio “riga”, “mondo”, “paradiso”, “settimana”, “luna”, ecc.
A Montella era chiamato gioco della “campana” o anche "la settimana”.
Si giocava con due o più giocatori e per praticarlo occorreva, con il gesso o con un carbone, tracciare a terra un semplice disegno costituito da sette o anche dieci caselle rettangolari che in alcune variazioni rappresentavano i giorni della “settimana. Queste caselle venivano numerate progressivamente e si susseguivano in fila indiana salvo un paio di blocchi composti da due caselle affiancate.
Si giocava saltellando su una gamba sola e ciascun giocatore doveva dotarsi di una pietra da lanciare sul percorso; il sasso doveva essere piatto, non troppo grande e neppure troppo liscio, per evitare che scivolasse.

 


Era un gioco con non poche difficoltà che aumentavano con l’aumentare dei “giorni della settimana”, tant’è che ci voleva un’ottima mira per riuscire a centrare il quinto, il sesto e il settimo giorno.

Il gioco della “Campana” doveva svolgersi velocemente, senza indugi; non si poteva pestare mai le righe e in nessun caso la pietra o il giocatore potevano toccare le righe che delimitavano le caselle. Occorreva dunque mantenersi in equilibrio, saltellare veloci ed era consentito riposare, sui due piedi, soltanto nell’ultima casella, quella senza numero per cui nel caso di errore si ricomincia dal numero uno.
Vinceva chi riusciva per primo ad effettuare tutto il percorso
Nel dialetto montellese la pietra per il gioco della campana era detto “cingolo” e, per le finalità già descritta, era scelto con molta cura.
Ciò che rendeva speciale il gioco della “settimana” era la sua semplicità e il fatto che lo si poteva giocare per ore intere senza annoiarsi mai.


Un altro gioco classico, di gruppo, era quello dei “quattro cantoni”. Era, spesso usato come gioco di trattenimento e di distrazione. Si poteva giocare all’aperto o in una stanza grande; l’importante era che si fosse almeno in cinque. 

La prima regola del gioco era quella di formare un quadrato ampio. Un giocatore, scelto a caso, stava nel mezzo e veniva denominato “guardia”. Mentre gli altri erano nei quattro cantoni, ovvero si trovavano ai quattro angoli del quadrato.
Lo scopo era di scambiarsi di posto occupando il cantone libero senza farsi anticipare dalla “guardia”. Chi perdeva il posto e rimaneva senza un angolo si metteva nel mezzo e così via. Un gioco semplice ma che serviva a stimolare velocità, attenzione e riflessi.


Gioco di gruppo in assoluto era il “gioco del pallone”, un gioco che non ha bisogno di alcuna descrizione essendo esso, al giorno d’oggi molto conosciuto nonché largamente praticato.

C’ è solo da dire che ai tempi delle mia infanzia non c’erano campi di calcio o parchi attrezzati, ma “il pallone” si giocava nelle strade, nelle piazzette, in piccole “corti”, dove c’era un prato, uno spiazzo, un campo di erba tagliata.

 

Berretti, maglioni, le cartelle di scuola o due bastoncini diventavo la “porta”.
Nei tempi più remoti il “pallone” era di stracci legati fortemente e magari fermati con elastici procurati con il taglio di qualche vecchia camera d'aria di auto o di moto.
Solo successivamente si poté disporre di qualche pallone che apparteneva a qualche bambino benestante e “fortunato” che con generosità lo condivideva con amici e coetanei non altrettanto “fortunati”.
Inizialmente erano “palloni” prima di gomma, poi di cuoio e ancora dopo di plastica particolarmente “delicati e che irrimediabilmente si rompevano quando finivano su di un filo spinato.
Le regole del gioco era limitate al massimo per cui, tanto per fare un esempio, i corner (o calci d'angolo), non venivano battuti per mancanza di spazio e allora si stabiliva di tirare un calcio di rigore ogni tre corner.
Ricordo che ogni tiro in porta ad una certa altezza, che passava le mani alzate del portiere, sfociava sempre in tremende litigate, in quanto non si riusciva obiettivamente a stabilire se fosse o meno gol.
Per quel che mi riguarda, lo spiazzo meglio adatto al gioco del pallone era, in Piazza Bartoli, dietro la statua del S.S.S. Salvatore nonché in una zona posta sotto i castagni, al di là di “Raogliano”.
Un altro spazio “ideale” per il gioco del pallone era quello, costituito da tutto il lungo ed ampio marciapiede antistante alla vecchia Chiesa del Purgatorio o anche in Casa Fierro, ove, abitandovi i miei cugini Totoruccio e Matteo, giocavo a pallone, in un cortile che, per la sua ampiezza, permetteva una larga e concreta libertà.

In quel cortile le partite terminavano per ... sopraggiunta oscurità ed esso, per spaziosità e “sicurezza” era, in definitiva, un polo di larga aggregazione nel quale “confluivano”, oltre a tantissimi ragazzi di “Piazzavano” e di San Mauro, prevalentemente tutti gli altri cugini di Totoruccio, vale a dire Nicola e Mario nonché Felice, Ettore, Gaetano e Fernando ragazzi, questi ultimi, per lo più coetanei e figli tutti di Silvestro Volpe e di Aurora Fierro.


Un gioco anch’esso praticato sia dalle “femmine” che dai maschi era quello della “Palla avvelenata” o “palla prigioniera”
Per giocare era necessaria una palla e un giocatore scelto a sorte che diventava il “battitore” e lanciava la palla verso un muro gridando il nome di un altro giocatore.
A questo punto tutti dovevano cercare di scappare allontanandosi il più possibile, tranne il giocatore chiamato dal battitore che doveva cercare di prendere la palla e gridare “Fermi tutti!”, costringendo gli altri a diventare “statue immobili”.
A questo punto il giocatore che aveva la palla poteva fare tre passi verso un giocatore e cercare di colpirlo e quindi eliminarlo, se però il giocatore preso di mira riusciva a bloccare al volo la palla, era il battitore ad essere eliminato, e si riprendeva da chi aveva afferrato la palla. Vinceva chi rimaneva ultimo.
IL gioco “Regina reginella” era un classico gioco femminile di gruppo in cui una delle bambine svolgeva il ruolo della “regina” mentre tutte le altre avevano il ruolo di “ambasciatori”.
“Regina” e “ambasciatori” si ponevano ai due estremi del campo da gioco e ciascun “ambasciatore”, a turno, recita la seguente filastrocca:
«Regina reginella, quanti passi devo fare per arrivare al tuo castello con la fede e con l'anello, con la punta del coltello?»
La “regina” rispondeva assegnando al giocatore un certo numero di passi, associato ad un animale.
Ad esempio: 5 passi da “leone”, 4 passi da “canguro”, e così via.
Il giocatore doveva eseguire il numero di passi assegnato, imitando il relativo animale.
Vinceva chi raggiungeva per primo la regina, diventando regina a sua volta.
Il divertimento stava proprio nel ruolo sproporzionato assegnato alla “regina”, ma anche nella possibilità di impegnarsi per interpretare nel modo più efficace i passi assegnati, anche quando sfavorevoli, per avanzare il più possibile.

Altri giochi classici erano “Strega comanda colore” e “Uno, due, tre stella!”.
Nel primo gioco una bambina faceva “la strega” e urlava la frase di rito abbinata ad un colore, tutti i giocatori dovevano correre alla ricerca di un oggetto di quel colore da portare alla strega. Chi non riusciva nell’intento veniva eliminato e il gioco terminava quando rimaneva un solo giocatore che diventava a sua volta una “strega”!
Per il gioco “Un, due, tre stella!” un giocatore scelto a caso si poneva davanti a tutti i giocatori a debita distanza (circa 6-10 metri), si metteva di spalle e urlava “Un, due, tre stella” a quel punto si girava di scatto ed osservava i giocatori.
Lo scopo del gioco era di cercare di raggiungere il giocatore che parlava senza farsi notare, quando esso era girato infatti loro dovevano correre verso di lui, ma quando egli si girava doveva vedere gli altri giocatori immobili, se qualcuno veniva visto muoversi era squalificato.
Il gioco terminava quando tutti i giocatori erano squalificati o se qualcuno riusciva a raggiungere il giocatore che parlava.
Questo gioco in altri contesti regionali italiani è anche conosciuto come “Le belle statuine d’oro e d’argento” o “L’orologio di Milano fa Tic tac”.
Oltre ai giochi di strada e di gruppo maschili fin qui descritti ce n’erano tanti altri che con le stesse motivazioni di socializzazione avevano particolari caratteristiche di “intrattenimento” o di spiccato “passatempo” per gruppi numericamente assai ristretti.

 

Per noi ragazzi uno dei giochi di sicuro “intrattenimento” era senz’altro quello con le “staccie”.

Era un gioco di lancio, di mira e precisione che affonda le sue radici nell’antichità; Omero infatti presentava i suoi eroi intenti anche a giocare con pietre piatte, dunque quello della “staccia” era un giuoco molto simile a quello delle “bocce” in cui la “staccia” aveva lo stesso uso e le stesse finalità delle sfere bocciofile; il gioco ha molte varianti ed è assai diffuso a livello europeo nonché molto praticato - fin dall'antichità – nella Valle d'Aosta ove è denominato “gioco del palet”.
Per noi ragazzi di Montella la “staccia” era un pezzo di mattone più o meno ben levigato per meglio afferrarlo e lanciarlo.
Per fare quel gioco occorreva che ciascun giocatore disponesse di una “staccia” da lancio; e occorreva anche disporre di un altro pezzo di mattone, chiamato (come nel gioco della “settimana”) “cingolo e che, con la funzione di “birillo”, era posto, in verticale, ad una certa distanza.
Ciascun giocatore, a turno, dalla distanza di dieci metri circa, lanciava la sua “staccia” cercando di colpire e far cadere il birillo.
L’analogia con il gioco delle bocce è evidente, ciò che cambia sono solo gli “strumenti del gioco”: il “cingolo” a posto del “pallino” e la “staccia” a posto della “boccia”.
Ricordo che negli anni ’60- ‘70 il gioco delle “staccie”, con l’avvento della plastica, ritornò di moda convertito in una versione di otto bocce piatte, proprio in gomma-plastica, tenute insieme da un improbabile raccordo che serviva come manico per trasportarle e con un “piastrellino” piccolo che aveva la funzione del “boccino”, ovvero del lontano “cingolo” montellese !!!

Il gioco del “tuzza muro” o anche “Battimuro” era uno dei giochi assai praticato dai maschi; si faceva con monetine di scarso valore, esattamente le “lire” andate “fuori corso” dopo il 1945, al termine della seconda guerra mondiale.
Nel gioco le monete venivano lanciate contro un muro per farle rimbalzare sulla superficie della strada; chi riusciva a lanciare la sua moneta a distanza di un palmo da quelle rimaste in terra poteva prendersele.
Una variante del gioco era quella per cui la monetina si lanciava da una distanza prefissata con l'intento di farla avvicinare il più possibile a un muro permettendo così la vincita di tutte le monete più distanti.
Un gioco simile a quello del “monete” era quello delle “figurine”.

Le figurine consistevano in un piccolo rettangolo di cartoncino con sopra stampato l'immagine di un atleta, di un attore del cinema, di animali ecc. che, incollate su un apposito album, permettevano di soddisfare il desiderio di collezionismo dei ragazzini.

 

Nel gioco i giocatori si riunivano, con i loro mazzetti di figurine e, con ordine stabilito con la “conta”, lanciavano, a turno, con un piccolo colpo delle dita una propria figurina, dall’alto: da una sedia o anche da un muretto.
Se una di queste figurine finiva sopra ad un’altra, anche solo in parte, il vincitore aveva come premio le figurine che si trovavano per terra
I giocatori nel gioco usavano ovviamente le figurine doppie con lo scopo, in caso di vincita, di incrementare e completare il proprio album.
Un altro modo di giocare con le “figurine” era quello del “volta mazzetto” che consisteva nel rivoltare, nel lato opposto, con un “secco” colpo della mano, a “cuppito”, un mazzetto di “figurine” il quale era costituito con il contributo di ciascun giocatore; le figurine che si giravano di dorso venivano “prese” dal battitore di turno.
Con lo stesso principio di “rovesciamento” erano il gioco con i “pennini” e delle “formelle” vale a dire dei bottoni; per lo più questi due ultimi semplici giochi erano praticati a scuola, negli orari antecedenti e susseguenti o anche durante la “ricreazione”.
Un gioco altrettanto semplice e senza dubbio divertente ere quello dei “Tappi”
Il gioco consisteva nell’uso del bordo di un marciapiede o anche nel tracciare una pista per terra con curve e rettilinei posizionando all'inizio della pista dei tappi.
Ogni bambino che possedeva un tappo aveva diritto ad un tiro ad ogni turno.
Lo scopo era quello di arrivare primi al traguardo.
Il tiro si effettuava spingendo il tappo con uno scatto dell'indice. Se il giocatore tirava il tappo al di fuori della pista doveva tornare indietro e rincominciare dall'ultimo tiro effettuato.

Un altro gioco diffuso tra i maschi era quello delle “biglie” vale a dire sfere dalle dimensioni tra 1 e 1,54 cm circa, di vetro, generalmente colorato in varie tonalità.

Erano usate in vari giochi, ad esempio per corse su pista o per centrare buche per terra o anche le biglie avversarie.
Il gioco consisteva nel colpire le biglie degli avversari diventandone proprietario.
Prima di poterle colpire però bisognava far entrare la propria biglia in una buca (la tana) precedentemente preparata (di solito si sceglieva uno spiazzo di terra dove si scavava una buca del diametro di più o meno una spanna).
Se si riusciva a colpirla guadagnava la biglia avversaria e continuava il gioco, in caso contrario il gioco passava agli altri giocatori.
Anche questo gioco era praticato nell'antica Roma e ancora oggi è possibile vedere delle piccole buche scavate sulla scalinata della basilica Giulia al Foro Romano.
Un altro gioco spesso praticato dai bambini era la “morra cinese”, comunemente conosciuta come “sasso-carta-forbici”.
Il gesto di partenza del gioco era quasi identico a quello del "pari o dispari” e veniva usato spesso, insieme alla “conta” quando si doveva "tirare a sorte”.

Un gioco di destrezza in cui le bambine erano assolutamente brave era quello delle “vrecchie” ossia “Il gioco dei sassolini” o anche “Il gioco dei noccioli”.
Noto già nell'Italia risorgimentale col nome di “ripiglino” epoca in cui veniva praticato utilizzando noccioli ed anche sassolini o monete.
Il gioco aveva origini antiche ed era molto simile ad un gioco praticato già nell'antica Grecia con un numero determinato di cinque sassolini ( λίθος, líthos ossia pietra).
A Montella il gioco era molto praticato e per farlo occorrevano almeno cinque sassolini, possibilmente sferici, chiamati “vrécchie”.
Dopo aver disposto i sassolini per terra abbastanza vicini, stando seduti, si lanciava un sassolino in aria e nel frattempo, con la stessa mano, se ne raccoglieva un altro, poi si riprendeva al volo il primo e lo si metteva da parte.
Lo stesso gesto andava ripetuto per ognuno degli altri sassolini.
Quando si sbagliava a raccoglierli si passava ad un altro giocatore.
Vinceva chi riusciva a completare il gioco senza uno sbaglio.

Un altro gioco era quello della “Matassa”, detto anche “Il ripiglino”.
Era giocato con un filo e veniva fatto da due o più persone usando la mani ed una cordicella.
Il gioco consisteva nel formare figure intrecciando a turno la cordicella intorno alle proprie dita.
Ciascuno dei partecipanti "ripigliava" il filo dalle mani del precedente ottenendo un nuovo intreccio; vi erano “figure” che si ottenevano per mezzo di mosse definite e che, dunque avevano nomi specifici, tipo “culla”, “materasso” o “graticola”, “candele”, ecc. In genere, si iniziava dalla “culla”.

Lo “scupidù” era un vecchio gioco che divenne molto di “moda” tra bambini e ragazzi, soprattutto negli anni sessanta, la cui denominazione corretta sarebbe “scoubidou”.
Lo “scupidù” era un semplice intreccio a sezione quadrata o arrotondata che si realizzava con due cordini, generalmente di diverso colore.
Si usava un cavo sottile in nylon o canapa di uso marino, ma poteva essere fatto con altro materiale tipo spago, cordino in plastica, cavi elettrici (specie quelli telefonici bianchi e rossi che all’epoca non era raro trovare in spezzoni di avanzo).
Certamente nella descrizione fin qui fatta sono stati omessi non pochi giochi della tradizione montellese così come è fuor dubbio che per quelli menzionati non mancano imprecisioni e confusioni ma, quel che per me conta è di essere riuscito alla men peggio a “ripescarli” nella maggioranza e ciò nella speranza che essi possano “rivivere”, se non nella pratica, almeno nella conoscenza dei giovani d’oggi in quanto elementi costitutivi della propria storia e delle proprie origini.
Di fatto, è bene ribadirlo, quei giochi tradizionali erano tutti, senza distinzione alcuna, giochi divertenti e stimolanti, di cooperazione, di strategia, con regole e dunque educativi, che aiutavano il corpo e la mente, che spingevano ad essere attivi, creativi e soprattutto promuovevano lo sviluppo di molte delle capacità motorie ed intellettive.
Oggi, ahimè, non è più possibile giocare nelle strade e nelle piazze; il traffico e le tante oggettive, sottese e assai note pericolosità precludono la possibilità ai nostri ragazzi uno stile di vita uguale a quello di un tempo lontano; sono costretti, per loro sicurezza, a restare, per lo più “prigionieri” in casa o quanto meno in stati di sorveglianza illimitata.
Ed ecco che essi, tra le mura domestiche, vivono una esistenza noiosa, sedentaria, per lo più davanti ad una televisione o anche trascorrono giornate intere dietro al monitor di un pc, con in mano un tablet o in non pochi casi impegnati, con l’intraprendenza e l’assistenza degli adulti, in corsi di nuoto e di basket, di musica, recitazione e canto nonché di lingue straniere.
In altri termini ai nostri ragazzi, alla fin fine, è preclusa la libera possibilità di trascorrere il loro tempo fuori casa, all’aria aperta in giochi di movimento, di comunicazione e socializzazione, di fantasia, di costruzione e di fantasia paritetici a quelli da noi praticati in autonomia e piena libertà.
I pochi giochi in uso oggi sono prodotti dalle industrie, hanno finalità assolutamente speculative e commerciali e, a mio avviso, assolutamente privi di segni educativi rispetto alla promorzionalità dei giochi tradizionali, quelli che, ormai, continuano a vivere solo nella memoria dei più anziani.
In tal senso il mio ricordo va anche ai tanti “giocattoli” che noi ragazzi “creavamo” e “costruivamo”, direttamente, adoperando anche semplici e primitivi manufatti
Ripenso ai “rocchetti” o “carri armati, ai cerchi, ai telefoni senza fili, alle trottole, agli aquiloni, agli archi, ai fucili ad elastici, ai “frauli”, ai fischietti, ai monopattini, alle carriole, alle cerbottane, alle fionde, ecc. ecc, insomma a tutti quei giocattoli per la cui “costruzione” usavamo, per lo più, materiali di scarto: rocchetti, cuscinetti meccanici, pezzi di legno, cerchioni di biciclette, vecchi ombrelli e materiali molteplici, vari e quant’altro, insomma “giocattoli” di cui si parlerà, in altri momenti, sempre su questa rivista.
Dunque termino e, per ricordare ancora i giochi di una volta, vi dò appuntamento per altre e prossime pubblicazioni, dunque: alla……prossima, !!!

 

Leggi anche:

I giochi di una volta a Montella - Parte 1

- I giochi di una volta a Montella - Parte 3

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