DELITTI IMPUNITI 2 PUNTATA ORIZSe nella vita e nel delitto dell'abate Goglia, con la sua mitizzazione leggendaria operata dalla fantasia popolare, sembrano “magicamente” confluire e fondersi le multiformi connotazioni (elementi storici, cronachistici, sociali, superstiziosi) del secolo tragico in cui si consumarono, la vicenda biografica e l'assassinio di Francesco Pascale, detto Ciccio, rimandano, invece, alla fonte originaria del male, annidata nell'animo come compresenza riposta e prepotente di una istintualità “cattiva”, non più refrenabile dai sentimenti di moralità, di religiosità, di pudore, di rispetto e di pietà che sono alla base del vivere civile.
Il delitto di Francesco Pascale fu, in fondo, soltanto l'assassinio di un assassino.


La storia di questo personaggio si svolse nella prima metà dell'Ottocento, in una Montella che visse non passivamente gli eventi e i rivolgimenti politici e sociali di quel periodo cruciale della storia del Mezzogiorno.
Il giacobinismo del '99 aveva visto come protagonisti gli esponenti di alcune famiglie montellesi dalle idee avanzate e “rivoluzionarie”, come i Capone (con il capostipite Andrea), i Lepore (con Don Aniello), i Clemente (con il capo famiglia Dionisio ed il figlio Nicola), i Galea, gli Abiosi (con i quattro germani Febo, Domenico, Gennaro e Lelio). In piazza Bartoli era stato issato l'albero della libertà repubblicana, presto abbattuto dalla reazione sanfedista. A Montella erano sorte le prime vendite carbonare; si erano accesi i primi fuochi dei moti risorgimentali, del patriottismo e dell'antiregalismo, soprattutto ad opera dei fratelli Filippo e Scipione Capone.

Di contro, in stragrande maggioranza, la acquiescente fedeltà all' assolutismo borbonico - di cui massimo rappresentante fu Francesco Maria Trevisani – del popolo e delle famiglie più influenti della borghesia locale, tra le quali si distingueva proprio quella dei Pascale, da cui il nostro Francesco proveniva. La famiglia Pascale, dimorante nel rione Fontana, si annoverava tra le più cospicue del patriziato montellese; al paese aveva dato nei secoli passati figure prestigiose nel campo della religione, del diritto, della medicina, dell'avvocatura e del notariato. Politicamente si professava apertamente schierata su posizioni legittimiste e filoborboniche. Il rampollo Ciccio, per educazione ricevuta, si appalesò presto come un miope ed intransigente assertore di quel codinismo d' ancien régime tipico dell'assolutismo regalista. Ma di spiriti antigiacobini si era fortemente imbevuto anche durante il decennale periodo di studi teologici trascorso nel seminario di Nusco, allora vacante dell'Ordinario diocesano e retto dal corrotto vicario Emidio Della Vecchia, durante il regime napoleonico che ne aveva soppresso le tradizionali prerogative finanziarie e socio-religiose.


Nato a Montella nel 1790, conseguì l'ordinazione sacerdotale nei primi anni '20; svolse la sua professione clericale durante la repressiva restaurazione borbonica, caratterizzata dall'occhiuta sorveglianza e dall'incessante persecuzione dei pochi “galantuomini” del paese sospettati di simpatie liberali. Don Ciccio, a tutt'altro dedito fuorché alla sua missione pastorale, non mancò di esercitare per conto dell'autorità l'indegna attività di spia e delatore antiliberale, ricavandone favori, lucro e soprattutto impunità per le sue note azioni delinquenziali. Di lui si conoscono le fattezze fisiche, ricavate da un passaporto rilasciato a suo nome nel 1825 dall'Intendente di Principato Ultra per recarsi a Roma durante il giubileo indetto da papa Leone XII, al fine di “lucrare indulgenze”, spendibili nell'aldilà a sconto di una vita terrena peccaminosa e scellerata:

Francesco Pascale, nativo di Montella, sacerdote in veste di pellegrino accompagnato dal nipote Giuseppe. Connotati: età, anni 35; statura alta; capelli castagni; fronte giusta; occhi cervoni; barba folta; mento e viso regolari; carnagione naturale.

Le qualità morali e le delittuose attività di questo famigerato prete sono descritte in un documento giacente presso la Biblioteca Provinciale di Avellino, contenente alcuni appunti sulla situazione dei vari comuni del Principato destinati al procuratore generale Michele Pironti:

Dal 1820 al 1848 potè organizzare il delitto a suo bell'agio, sotto la protezione della polizia borbonica, che talora finse di arrestarlo, lasciandoselo subito sfuggire di mano con ben preparati colpi di scena. Furti, rapine, falsità, estorsioni, delazioni, tradimenti, assassinii, furono la incessante occupazione di questo personaggio, che nel 1848 venne ucciso per le mani di suoi satelliti.

Certo, a spingerlo verso la deriva di una vita costellata di crimini, di ruberie e di violenze, non furono soltanto la sua indole malvagia ed una irresistibile e perversa attrazione dal male. Una qualche motivazione dovette venirgli anche dalla non sopportabilità di una professione (quella di prete) che in quegli anni appariva estremamente precaria ed incerta, nonostante l'attenuazione del disagio economico del clero scaturita dal concordato tra Stato e Chiesa del 1818, che ripristinava in parte i perduti vantaggi del periodo pre-napoleonico. Il Pascale, difatti, non raggiunse né il vantaggioso status clericale del canonicato, né ebbe incarico parrocchiale in una delle numerose chiese di Montella. In un paese di oltre 6000 abitanti era andato soltanto ad ingrossare la già pletorica presenza di circa 71 preti e 20 monaci, alla continua ricerca di commesse e prebende (cfr. la Statistica Murattiana del Regno di Napoli del 1813).
Prefigurazione ante litteram del boss camorrista (la camorra campana sorgeva proprio in quegli anni!), capace di organizzare una vera e propria banda di malavitosi obbedienti ciecamente ai suoi ordini criminali, dedita ad estorsioni,sequestri e grassazioni, perì al fine per mano dei suoi stessi accoliti e complici, ormai intolleranti delle prepotenze e dell'egoismo del capo.
L'esecuzione dell'assassinio fu meticolosamente preparata dai sicari, ben consci della diffidenza e della circospetta prudenza di don Ciccio, sempre in all'erta a causa di ricevute minacce e di possibili improvvisi pericoli. Ma quella sera del 13 dicembre 1848 don Ciccio commise una fatale imprudenza. Affacciatosi sulla loggetta coperta del suo palazzo per una “boccata d'aria fresca” fu repentinamente attinto da un mortale colpo di fucile, esploso da un buco precedentemente praticato nella tettoia di copertura. Dopo aver verificato il sicuro decesso dell'odiato prete, gli assassini “travestiti, col volto coperto da una maschera, per la viottola che scende di fianco al palazzo si dileguarono attraversando il Vallone”. La ferale notizia subito si propagò per i casali del paese generando piena e liberatoria soddisfazione negli abitanti. Persino la milizia urbana guidata dall'imbelle Nicola Cutillo, nel passato connivente e manutengolo dell'assassinato, quasi si disinteressò dell'accaduto. La stessa Giustizia, tacciata in passato di indulgente copertura e talvolta di vera compromissione con l'attività del Pascale, presto rinunciò alla pur facile identificazione degli autori del delitto: al fine archiviò il caso come “assassinio da mano ignota”. Ma, come spesso accade per vicende di tal fatta, sarà la semplice creatività dell'arte popolare a tramandare a futura memoria la scabrosa fine del mefistofelico prete. Un anonimo coniò una filastrocca cadenzata ed ironica che con il suo ritmo cantabile sembrava voler esorcizzare il male insito dell'agire umano:

A li tririci re Natale
So' assuti li carnouali
'Anno acciso don Ciccio Pascale
E' stata proprio 'na cosa riale!
Co' 'na palla re 'no tornese
'Anno accoietato lo paese
Co' no poco re poleve e chiummo
S'è accoietato tutto lo munno!