Mulino Montella 01Il MULINO SUL PONTE DELLA LAVANDARA * Tra storia, simbologia e arte di Mario Garofalo   Prima di discorrere del tema di questo incontro mi sia consentito fare qualche fugace notazione sulla mostra qui esposta.
Nei quadri si coglie subito una particolarità: nessuno rappresenta il mulino in posizione isolata o in primo piano, bensì esso appare in una cornice in cui campeggiano con più marcata evidenza pittorica altri elementi paesaggistici: il ponte, il fiume, la cascata, la montagna, il santuario. Ne nasce un quadro che racchiude un paesaggio composito e compiuto, apparentemente idillico, quasi arcadico, ove nulla sembra stridere od offendere, come se l'artista avesse percepito nel suo afflato ispirativo l'esigenza di una rappresentazione nella quale dovesse apparire non il protagonismo figurativo di una singola parte, bensì la necessaria armonia di tutti gli elementi paesaggistici. Ed è proprio in tale parvenza di composizione che i montellesi di ieri e di oggi hanno sempre visto o immaginato il mulino. Provate a togliere soltanto uno degli elementi che circondano il mulino e avvertirete il senso di una mancanza, di un'assenza ingiustificata, quasi una indistinta e persistente nostalgia di un qualcosa che dovrebbe esserci e non c'è. Questo perché quei luoghi, tutti insieme carichi di una simbologia che riassume l'identità storica, sociale e spirituale dei montellesi, sono anzitutto “luoghi della memoria” collettiva, che conservano un'anima ed una voce ancestrali capaci di colloquiare, arcanamente ma familiarmente, con chi li ammira.
Il Mulino, simbolo della dura fatica dell'uomo che dalla terra cerca di ricavare, con la molitura del grano, la sostanza fondamentale per la sua sopravvivenza; e per questa sua valenza mitica da sempre rappresentato nelle arti figurative e letterarie. Si pensi, ad esempio, a due tra le più famose opere letterarie aventi come protagonista il mulino: Il Mulino sulla Floss della scrittrice inglese George Eliot, dove si consuma tragicamente la storia amorosa di Maggie e Tom, e la trilogia di Riccardo Bacchelli Il Mulino del Po, dove il mulino è spettatore e attore secolare del destino di quattro generazioni della famiglia Scacerni e della storia italiana dalle guerre napoleoniche al primo conflitto mondiale.
Il Ponte( su cui aleggia la medievale leggenda dell'etereo fantasma della lavandaia, morta per amore) simbolo di fuga, di allontanamento e di viaggio, ma anche di ritorno, di ricongiunzione ed affratellamento delle stirpi; anch'esso rappresentato nell'arte e nella letteratura d'ogni tempo: mi viene in mente il famoso romanzo dello scrittore serbo Ivo Andric, Il ponte sulla Drina: anche da quel ponte una fanciulla innamorata si gettò nelle acque impetuose del fiume.
Il Fiume, testimone del tempo e delle vicende umane che fuggono inarrestabili, che nel suo lento e monocorde sciabordio sembra ricantare o (come diceva il poeta conzano Antonio Francesco Cappone) (rim)piangere le antiche rovine, i tempi perduti e le gesta degli eroi, e per noi di Montella lo sciacquio dei panni e i canti delle lavandaie.
La Montagna, simbolo dell'ascesa faticosa della vita, rito votivo alla conquista della pace e della purezza dello spirito, che si rasserena nel mistero della fede e della Verità rappresentato dal santuario, dove terra e cielo s'incontrano.
Penso che i quadri esposti, che sono certo trasfigurazione e mimesi artistica, vadano primieramente osservati con una disposizione d'animo richiedente una contemplazione non critica o valutativa, bensì sentimentale ed emotiva. Come sosteneva Benedetto Croce, che pure è stato il più importante teorizzatore dell'estetica del XX.sec, il quale alla domanda semplice “che cos'e l'arte?” rispondeva in prima battuta, un pò celiando (ma non era una celia sciocca) che l'arte è “ciò che tutti sanno che cosa sia”, giacché tutti, anche i più sprovveduti culturalmente, possono istintivamente sentire e godere la Bellezza dell'arte, che a lui appariva sempre adombrata da un velo di malinconia.

Mulino Montella 01 B

La costruzione del Mulino risale al sec. XVI, che fu un periodo aureo per la edificazione di opifici in genere: mulini, ferriere, gualchiere ed attività ad essi affini e collegate, come armerie, tintorie, maccaronerie, forni. Diversi mulini allora vennero costruiti, per impulso ed interesse di baroni illuminati, sui fiumi Sabato, Fenestrelle, Fredane ed Ofanto. A Montella, in quegli anni, sorsero una gualchiera, una tintoria, una maccaroneria, alcuni forni e furono incrementate le attività ferriere con alcune chioderie nella zona Baruso. Nei primi anni del secolo successivo fu persino attivata, con poca fortuna, nella zona Bagno, un'armeria per la fabbrica di “moschette, archibugi e scoppette”. Nel feudo montellese, che comprendeva anche Bagnoli, Cassano e Volturara, già esistevano anticamente tre mulini, de Baruso, del Bagno ed un terzo in territorio di Cassano. A Bagnoli invece un mulino fu impiantato solo alla fine del Cinquecento. Il primo era da tempo in disuso, in parte persino travolto e disperso dalla fiumana; gli altri due, per la loro lontananza dal centro abitato, comportavano gran disagio e fatica per il trasporto del grano da macinare, che allora avveniva a dorso di asino o di mulo (per chi possedeva questo bestiame da soma!) e, più spesso, per mezzo di donne che caricavano i gravosi sacchi di grano sul capo, malamente protetto dal cosiddetto truocchio (cioè il cercine), una sorta di cuscinetto circolare formato da qualche vecchio scialle arrotolato. I pochi carri esistenti erano ancora di fattura arcaica, a due ruote e malamente assemblati; spinti a mano o trainati da asini su strade petrose e dissestate, erano fortemente instabili e poco governabili. Fu, quindi, fatta richiesta al feudatario conte Garcia II Cavaniglia, da parte del sindaco Marino de Marco e dagli eletti dell'Università, di costruzione a proprie spese di un nuovo mulino sul fiume Calore. Il 5 agosto 1564, pertanto, venne stipulato tra le parti l'atto di concessione edilizia, rogato dal notaio Giacomo Boccuti, contenente dettagliate prescrizioni tecniche di edificazione e le condizioni di licenza per l'utilizzo dell'immobile e del servizio di molitura. Il mulino, detto poi “del ponte della Lavandara”, rimaneva, come i precedenti mulini, corpo feudale, vale a dire non bene demaniale o allodiale, ma legittima proprietà del feudatario, che su di esso poteva esercitare all'occorrenza jus prohibendi. Le spese di costruzione, non di poco conto per quell'epoca, furono ad intero carico dell'Università. Per la concessione del beneficio il conte pretese 1000 ducati (corrispondenti ad attuali 16000 Euro), l'abbuono totale di un oneroso debito in danaro contratto dai suoi avi predecessori ( Diego II, Troiano II e Giustiniana de Capua) nei confronti dell'Università, dopo i fatti del 1528 relativi alla invasione del Lautrec; la riscossione in denaro del “diritto di molitura” e di parte della gabella sulla farina, da tempo istituita dall'Universita; inoltre su ogni tomolo (55,31 lit.) di grano macinato 5 tornesi netti ( 1 tornese= 0,12 cent di Euro) e la giumella (quantitativo di farina contenuto delle mani accostate insieme con le dita riunite ed incurvate verso l'alto). L'Università, le cui finanze erano allora vistosamente in rosso, dovette reperire i 1000 ducati più 100 per spese notarili, per l'assenso regio e per la registrazione catastale, ricorrendo a prestiti a tasso d'interesse fino al 10% dandone garanzia sulle gabelle comunali (farina, carni, vini e catasto). A quel tempo l'Università economicamente si reggeva unicamente sulle entrate derivanti dalle numerose gabelle e tributi imposti ai cittadini. Tra le gabelle più fruttuose era proprio quella gravante sulla farina, che dava 2440 ducati annui. Altre consistenti entrate erano assicurate dalle gabelle sul catasto (1545 ducati), sulle difese (99 ducati), sulla carne (81 ducati). Ma erano in vigore,altresì, numerosi altri tributi e balzelli. Oltre quella sui fuochi, la popolazione era angariata da una miriade di imposte applicate su ogni attività e prodotti di consumo: gli usi civici (erbatico, pascolo, pesca, glandatico, legnazione, acquatico, plateatico, portolania ecc), il sale, la pasta, la carne fresca, i salumi, il pesce, il formaggio, i latticini, la frutta, il vino, la neve, il bestiame ecc. E però il sistema gabellare prevedeva una tripartizione degli introiti, tra il feudatario, l'Università e l'appaltatore. Il maggior guadagno andava agli arrendatori, costituiti da privati cittadini o esponenti di famiglie aristocratiche o borghesi, possessori di buone finanze, che si accaparravano gli appalti. Ad esempio, sul sale percepivano una percentuale di 6 carlini a tomolo ( 1 carlino = 1,60 euro); sulla farina 7 carlini a tomolo, sulla farina lavorata per il pane 10 grana per tomolo ( 1 grano = 0,16 euro). Sulla neve (trasportata di notte dalle neviere) si versavano 4 tornesi a tomolo; sul vino bianco 20 grana, sul vino rosso 80 grana; sul bestiame si versava 1 grano a capo, se condotto a piedi, 1 e ¼ grano se trasportato su carro. Purtroppo i ducati e la sanatoria debitoria carpiti dal conte all'università per la concessione costruttiva del mulino, non sanarono certo la situazione finanziaria della casa governante, ormai ruinante verso una definitiva débacle. Garcia II Cavaniglia, uomo debole e poco incline ad una accorta amministrazione dei propri beni, continuò ad indebitarsi fino ad una insostenibile saturazione. Il suo successore Troiano III sarà costretto a svendere il feudo, determinando, nel giro di pochi decenni, anche l'estinzione del proprio casato nobiliare.
Intanto l'Università portò avanti l'esecuzione del deliberato sulla costruzione del Mulino. L'opera fu commissionata alla locale ditta edilizia di Antonio e Nunzio Pascale. La costruzione andava ultimata entro l'ottobre 1565. Il sito prescelto fu lo ponte de la lavandara dov'èi la iumarella. In quel punto, infatti, il fiume giungeva con una portata ottimale, imprimendo alle acque una energia cinetica costante, utile al funzionamento della ruota. Il capitolato d'appalto prevedeva condizioni molto precise. La casa doveva avere una lunghezza di 33 palmi (1 palmo = cm 26, quindi mt. 8,58), una larghezza di 24 palmi (quindi mt 5,84), perciò di circa 51 mq. La calata dell'acqua 17 palmi (quindi circa mt 4,50). Le mole dovevano essere reperite in contrada Serrone della famiglia Capone (Stratola) e nel bosco di Folloni, che ne abbondava, ma sulle quali il convento di San Francesco vantava antichi diritti di proprietà, in ragione dei quali sul bosco, che pur rientrava tra i corpi feudali, il conte era tenuto a pagare ai frati un censo annuo di 35 ducati circa, quasi sempre inevaso e perciò causa di ripetute liti tra le parti.
Particolarmente laboriosa si rivelò la costruzione della diga di contenimento della fiumana, dapprima in muratura e poi con pali di legno intrecciati con torte o funi. La manutenzione, ordinaria e straordinaria, della palata, frequentemente travolta dalle inondazioni fluviali, richiedeva spese ingenti (l'ingegnere napoletano Giulio Caso nel 1598 vi lavorò per 38 giorni con una diaria di 20 carlini più vitto e alloggio) ed innumerevoli giornate lavorative, che il conte, con abuso ricattatorio, richiedeva ai montellesi senza alcun onere retributivo!
Il termine palata, con un metagramma tipico del dialetto, divenne nel tempo pelata e finì con indicare propriamente la cascata (ancora oggi); ma allora voleva significare “palizzata”, o tutt'al più (con una sineddoche) l'intero sito ospitante il mulino. Improbabile mi sembra un riferimento del termine pelata all'espressioni “a pelo d'acqua” o “a pelo libero”, usate in idraulica per indicare la superficie dei fiumi a contatto con l'atmosfera.
Sull'architettura e sulla conformazione tecnica di funzionamento del mulino non mi soffermo, non avendone competenza. Di certo sappiamo che da Vitruvio a Leonardo Da Vinci la tecnologia molitoria aveva ormai raggiunto e codificato canoni e livelli ben definiti.
Il nostro mulino era in grado di macinare 130 tomoli di vettovaglie, vale a dire 7200 kg di grano. Forniva farina agli abitanti per vari usi alimentari e principalmente a forni e panetterie, in buon numero presenti sul territorio montellese, i quali, a loro volta, erano tenuti a rispettare, pena salate multe pecuniarie o sospensione e chiusura delle attività da parte del baglivo, alcune regole perentorie: affissione all'ingresso del cartello dei prezzi; in caso di carestie (ne sopraggiunse una lunghissima nel 1585) non si poteva lavorare il pane e i biscotti per lo smercio al minuto eccetto per gli ammalati; i fornai non potevano possedere mulini o commerciare farine; si dovevano approvvigionare direttamente al mulino o al mercato, solo dopo il suono della campana di mezzodì quando i cittadini si erano già riforniti, onde evitare fenomeni di accaparramento. Al rispetto rigoroso di tali regole era preposto un apposito ufficiale denominato catapano.
Il pane veniva venduto a rotolo (gr. 891,00), a libbra (gr.320) o a oncia (gr.26,7), ad un prezzo abbastanza contenuto. I ceti bassi consumavano pane di granturco (paneparruozzo), detto anche “grano d'India” o mais. Il pane di frumento, più costoso, era prescelto dalle famiglie benestanti. Durante le carestie il popolino mangiava pane di miglio o di orzo.
Il mulino ha funzionato per circa quattro secoli, fino al secondo dopoguerra. Ha vissuto perciò i vari contraccolpi determinati dalle vicende storiche italiane e i diversi momenti di crisi dell'economia nazionale. A cominciare dagli anni 1868-1884, quando la destra storica di Quintino Sella e Luigi Menabrea introdusse la famigerata “tassa sul macinato”. Questa tassa, che ebbe un effetto di ulteriore impoverimento sia economico che alimentare soprattutto delle popolazioni del Mezzogiorno, si calcolava con un metodo concepito a tutto vantaggio del giovane Regno d'Italia, allora in uno stato di disastroso dissesto finanziario. Si applicava nel mulino un contatore meccanico che numerava i giri della macina, in base ai quali si calcolava la quantità di cereale macinato e la relativa tassa. Sul granoturco si pagava 1 lira per ogni quintale macinato, sul grano 2 lire per ogni quintale; sulle castagne 0,50 cent per ogni quintale. L'imposta veniva versata in contanti o, più spesso, con porzioni di grano prelevate dal quantitativo da macinare, al mugnaio che a sua volta periodicamente la rimetteva all'esattore statale.
Durante il fascismo l'attività del mulino subì una fortissima accelerazione in conseguenza della famosa “battaglia del grano”, che Mussolini intraprese con il miraggio della autarchia e della autosufficienza alimentare della nazione. Seguì il tristissimo periodo della guerra, con le requisizioni e gli ammassi granari, il mercato nero della farina, la corruzione degli ammassatori, le misere tessere annonarie e gli assalti ai mulini, ai forni e ai municipi; e poi i bombardamenti degli angloamericani che sbriciolavano i muri e le condotte del vecchio mulino sul ponte. E, infine, le macerie dell'abbandono e della indifferenza. Finiva così la storia del glorioso mulino: brandelli di muri anneriti e coperti (o forse difesi) da una vegetazione sempre più fitta ed impenetrabile.
Ricostruirlo sarà come restituire a Montella un pezzo della sua travagliata storia e della sua anima antica.

* ( relazione tenuta a Montella,anno 2019,per conto dell’Associazione Ricostruiamo il mulino )

Mulino Montella 01 D

Mulino Montella 01 C