Stefano Volpe 01«Faccio l’architetto, per questo sono andato via». Risponde così Stefano Volpe, generazione 1988, quando gli chiedo cosa l’ha spinto a lasciare Montella e l’Irpinia. Anche Stefano infatti, come tanti altri, dopo essersi trasferito a Roma per frequentare l’università non è mai più tornato. Dopo la laurea, nel 2014, ha vissuto due mesi in Irlanda per perfezionare l’inglese, successivamente è rientrato a Roma per lavorare da Fuksas, il prestigioso studio di architettura internazionale con sedi a Roma, Parigi e Shenzen. Dopo tre anni, tuttavia, si è staccato dallo studio, preferendo un tipo di lavoro autonomo affiancato da diverse collaborazioni; una scelta importante per la crescita professionale e in linea con la figura emancipata dell’architetto.
Stefano, interlocutore attento, preparato ma molto riservato, concede un po' della sua intimità solo quando, forse vinto dalla nostalgia, lascia ridestare il ricordo di quei sogni dischiusi nell’infanzia, e racconta:
«La mia passione è nata a Montella, tra i cui vicoli e rioni da bambino mi sperdevo e disegnavo…»
È meraviglioso immaginare come un luogo, con i propri vicoli e quartieri e con la propria storia, possa nutrire un’identità, coltivandone i sogni e irrobustendone le passioni, mentre amaro è realizzare come esso diventi poi il motore di una forza centrifuga, che spinge le sue risorse sempre più al nord.
«Chi sa» aggiunge Stefano meditando «forse crescere negli anni successivi al terremoto mi ha fatto venir voglia di partecipare alla ricostruzione per vedere gli edifici completi, non più dissestati e fatiscenti».
Il tempo e la ricostruzione ci hanno però insegnato che decadente non è soltanto un edificio diroccato da un cataclisma, ma può definirsi tale anche uno di recente costruzione, quando questo viene “tirato su” senza arte, cultura e (perché no?) passione.
«Non si può pensare di costruire, o ricostruire, un palazzo senza un background culturale e storico e senza pensare al contesto in cui verrà inserito. Non solo, nel caso di una ricostruzione, non si può non contemplare in fase progettuale la destinazione dell’edificio» afferma Stefano, e racconta:
«Dopo il liceo ero indeciso tra architettura e restauro, non avevo mai visto lavorare un architetto, non sapevo bene neanche cosa facesse. Questo perché fare l’architetto non esiste più dalle nostre parti tranne qualche eccezione, come lo Studio Verderosa di Lioni. Si è venuta a creare nel tempo una figura ibrida, una sovrapposizione di ruoli tra quello dell’ingegnere e del geometra, che bene si è consolidata nelle nostre zone, nutrita dal generale disamore per la cultura dell’architettura e la mancanza di denaro».
Ascoltando Stefano si immagina l’architetto come un direttore d’orchestra, come colui che mediante il pensiero trasforma la materia in arte, che “vede” per primo e che per primo costruisce. L’etimologia antica del termine sottolinea il peso di questa figura e della sua scienza.
Quando Vitruvio, nel prezioso trattato sull’architettura, delinea la figura dell’architetto ne prescrive l’adesione ai precetti della poliumathìa, ossia la necessaria conoscenza di diverse discipline: dalla matematica alla geometria, per le forme, la perfezione e la bellezza; dall’astronomia alla teologia, perché tutto sia secondo armonia e “gradito agli dei”; dallo studio delle leggi del diritto a quelle empiriche, quali l’acustica, l’ottica, la fisica fino alla medicina e la meteorologia. Tutte le scienze offrono, dunque, preziosi dettagli che migliorano lo spazio e l’ambiente concepito per l’uomo.
«Non dimentichiamo che gli edifici sono pensati e costruiti per la vita dell’uomo, di cui lo spazio è l’elemento fondamentale» spiega Stefano «ed è proprio lo spazio il dominio dell’architetto».
«L’architettura organizza l’area comune: scuole, edifici, opere pubbliche. E può farlo proprio perché contiene in sé il background culturale per gestire gli spazi».
Stefano Volpe 02Non serve chiedere a Stefano se ha in mente qualche buon esempio di recupero e gestione di spazi pubblici a Montella perché, da appassionato qual è, fornisce da sé un vasto elenco di luoghi da recuperare. Persino la sua tesi di laurea ha avuto ad oggetto un importante castello della zona che cela tra le sue mura affreschi del Trecento. Si tratta di un lavoro dettagliato che prevede il recupero e la valorizzazione del sito, contemplando un tipo di fruizione moderna ed ambiziosa: «Ho immaginato il castello del Monte come un piccolo albergo fornito di centro Spa, che permetterebbe di recuperare sia la struttura in questione che la zona circostante e lo stesso monastero. A mio parere è un errore adibire quel sito a solo museo. Bisogna pensare alle cose che creino un reddito e, per la gestione di un bene del genere, solo un museo non è sostenibile».
Oltre al Monte anche palazzo Virnicchi rientra nella lista di Stefano:
«Un edificio antichissimo che è stato lasciato degradare nel tempo e nel disinteresse generale, non solo, nell’area che rimane oggi si pensa di farne un parcheggio!».
«In quel caso» spiega Stefano «non è pensabile ricostruire un rudere da zero, ma potrebbe crearsi un parco archeologico». Lo stesso pensiero vale per l’antico mulino ad acqua andato distrutto: «ricostruire equivale a creare un falso storico, un edificio moderno con le forme dell’antico. E poi, per quale destinazione? Credo sia opportuno consolidare quello che esiste ed immaginare un percorso all’aperto che contempli anche il vicino ponte romano. La qualità del turismo è fondamentale per le nostre zone, solo il turismo culturale può apportare davvero qualcosa al territorio, soprattutto se inquadrato in una rete di comuni e in un percorso culturale che impegni un visitatore a lungo».
Secondo Stefano migliorare i trasporti aiuterebbe già a trattenere giovani e professionisti «avere un collegamento rapido con Avellino e Napoli significherebbe cambiare la struttura sociale. I trasporti e la logistica sono fondamentali: ci fosse il treno non solo per la sagra!» esclama.
Due anni fa, in occasione del trentottesimo anniversario del terremoto, Stefano è stato organizzatore della mostra d’arte “Quasi quaranta”, tenutasi presso il castello dei Cavaniglia a Bagnoli Irpino.
«Eravamo sette ragazzi tra scultori, pittori e fotografi, ognuno dei quali ha parlato tramite l’arte. Per l’occasione abbiano fatto aprire il castello, che altrimenti sarebbe rimasto chiuso.
L’idea che abbiamo è quella di organizzare una Biennale di arte che ricordi il terremoto e quello che ha significato».
Come Stefano tanti altri giovani, che sono partiti e si sono affermati fuori, possono rappresentare per l’Irpinia una risorsa, attirare loro e lo sguardo giovane, professionale e appassionato che li caratterizza, significherebbe riportare dignità e futuro a questa terra.

Bruno Roberta